Instagram

martedì 5 giugno 2012

Capitolo 02 – Architettura, Maxxi, ufficio e riflessioni sulle umane interazioni con Joe Haldeman

A seguito di una visita al Maxxi, museo di Roma di arte contemporanea, di recente costruzione, "griffato" Zaha Hadid (arabo: زها حديد‎Baghdad, 31 ottobre 1950) che è un architetto e designer irachena naturalizzata britannica (Wikipedia source!), ho costruito nella mia mente un'immagine: quanti livelli separano l'architettura delle archistar come ZH dall'architettura che è l'oggetto del mio lavoro?

Nella mia mente ogni livello è rappresentato da un gigantesco gradino colorato.

Vado per gradi (non per gradini colorati, per ora) e parto da quando sono entrato al Maxxi.
Sono entrato al Maxxi (già...) con il grande entusiasmo di vivere il volume architettonico e con un minimo, aeriforme interesse per i pezzi d'arte inseriti dentro.
Aggirarsi per il Maxxi è una bella esperienza, è un edificio libero nelle forme ma in realtà molto controllato da un'architettura devota allo scopo, che si infila nel tessuto urbano romano e si sviluppa attorno agli ambienti espositivi con grande cura del dettaglio, della forma geometrica degli ambienti e con interessanti soluzioni tecniche sparse qua e là.

foto dal sito Zaha Hadid Architects

Può succedere a tratti di perdere coscienza della forma che si sta visitando. Io e i miei amici abbiamo verificato più volte, mappa alla mano, di aver visitato proprio tutti gli ambienti, temendo di esserci persi qualcosa. Perchè l'edificio è lievemente labirintico: si parte a passeggio, si girella, si vive l'esperienza, ma dopo un po' ci si inizia a chiedere ma lì come ci si arriva? Ma lì ci siamo stati? Strano perchè in fondo non è enorme.

foto dal sito Zaha Hadid Architects

L'inserimento nel contesto è ben fatto. L'edificio non fa a pugni con l'urbano romano, anzi si connette in modo garbato. Inoltre dall'interno in più di un punto si vede la città Roma entrare nel Maxxi, con piacevolissime vedute. Bene!

Nel complesso, valutazione molto positiva all'architettura.

Posto qui un link ad una collezione fotografica del mio amico e collega architetto Vincenzo, che ha partecipato alla progettazione, nella quale si trovano molte bellissime foto dell'edificio, anche in fase di cantiere. E con l'occasione gli mando un saluto!

Tornando ai livelli di separazione (...i gradoni colorati), tra il progetto del Maxxi e la progettazione che caratterizza il mio lavoro ce ne sono circa... uno. Già, perchè l'architettura contemporanea, per come la vedo io, è divisa in due parti, e nel mezzo c'è una profonda spaccatura: la prima parte è rappresentata dalla super-architettura delle archistar, che comprende Il Maxxi e l'auditorium di Renzo Piano, i musei Guggenheim, il Burj Al Arab e tutte le opere che, con grandi budget, confusione e fantasia tracciano la storia dell'architettura contemporanea, che gli uomini del futuro nei loro libri di storia chiameranno probabilmente "Era dell'Architettura Vaga e Fuori Controllo". La seconda è quella a dimensione umana, ammantata di una versione opaca del vestito luminoso dello stile architettonico, che nasce da esigenze urbanistiche di mediazione e di preservazione e da proiezioni economiche e commerciali, e l'edificio progettato è l'emblema dello sforzo grande dell'architetto di donare una personalità al palazzo che tenderebbe a sorgere come mero agglomerato di abitazioni e altre destinazioni non residenziali, uguale a tanti altri, da costruire con tecniche note e collaudate.

L'edificio come concetto nasce in un posto come l'ufficio tecnico in cui lavoro, dove vengono recepite indicazioni a volte illuminanti e a volte da approfondire, spunti, richieste. Poi ci si lancia in un procedimento veloce da cui deve emergere il progetto, l'architettura. Alla richiesta segue la proposta, all'esigenza segue la soluzione. L'edificio viene progettato affrontando duramente i limiti imposti dai tempi, dalle leggi urbanistiche, dal piano economico e dalle esigenze commerciali, e si crea architettura. Camminando per i nostri cantieri vedo le nostre produzioni intellettuali che vengono costruite, e diventano vere, e mi chiedo... quanto siamo bravi? Come facciamo a condensare in un tempo predeterminato, e sempre troppo breve, il processo storicamente lungo e faticoso che è la creazione dell'architettura, e comunque riuscire a uscirne vincitori con delle produzioni soddisfacenti ed apprezzate dal mercato? Evidentemente siamo una squadra eccezionale. Gli studi delle archistar dovrebbero invidiarci, siamo dei fenomeni.

E dire che da dentro sembra diverso, le mie giornate passate nel mare degli argomenti che si susseguono, in cui la gestione della procedura urbanistica, i calcoli di normativa e il coordinamento delle professionalità interne ed esterne, mescolati con le decisioni estemporanee sull'azzonamento dei lotti, sull'allineamento e sul passo della struttura o sul cucinino dell'appartamento bilocale (chiuso o aperto?) appaiono come una battaglia, ed è come se nella mia squadra fossimo tutti dotati di una racchetta da pelota con la quale prendere al volo gli argomenti da sviluppare, trattenerli per il tempo strettamente necessario per lavorarci e poi lanciarli di nuovo, augurandogli buona fortuna.

Passeggiando per i cantieri, quelle poche volte che posso perchè il mio ruolo attuale mi tiene purtroppo quasi sempre lontano dai luoghi di realizzazione, a volte fantastico che l'architettura vera la facciamo noi.

...

Sfruttando sfacciatamente il controllo assoluto e totale e supremo che ho sul mio blog, mi collego a questo punto a John Haldeman parlando della mia squadra di lavoro e del mio ufficio in generale.

Di recente ho letto "Verso le Stelle", libro di mezzo di una trilogia di cui non ho letto gli altri due. Parla, detto in troppo poche parole, di un gruppo di astronauti che viene spedito verso una stella lontanissima per contattare una razza aliena potentissima che potrebbe avere brutte intenzioni, nella speranza che questa sia disposta ad ascoltare i motivi dei terrestri prima di distruggere l'umanità.


L'equipaggio è molto eterogeneo, c'è il pilota, il medico, qualche mlitare e anche spia, un filosofo, due marziani con quattro gambe dotati di una mente che ragiona secondo regole diverse da quella umana, e qualche altro personaggio chiave per la trama.
Il viaggio dura tanti anni. Recensione del libro: ottimo, divertente.

Il romanzo è tutto narrato in prima persona da questi membri dell'equipaggio e l'aspetto veramente stimolante è che il lettore segue la trama attraverso i pensieri di ogni personaggio tratti dal rispettivo diario di bordo personale, che gli altri astronauti non potranno leggere. Marziani inclusi. Il libro presenta le parti dei vari diari con titoli piuttosto vaghi, che lasciano il lettore libero di, anzi sfidano il lettore a capire quale degli astronauti sia la voce narrante in ogni capitolo. Ho trovato queso espediente molto divertente, e a volte ho sbagliato ad attribuire le parole al rispettivo personaggio, rendendomi conto dell'errore solo dopo qualche pagina.

Il team di astronauti collabora in modo esemplare per lo scopo comune della missione, dibattendo in modo estremamente educato ed intelligente sul da farsi di volta in volta, ma dai diari emergono dubbi, sfiducia, sospetti, ossessioni, insicurezze. A volte questioni di amore e odio. Al di fuori di tutto ciò che riguarda la missione, gli uomini e le donne dell'astronave sviluppano rapporti al limite della paranoia nel corso dei lunghi anni luce che devono percorrere. Intanto avvengono scambi interculturali, c'è chi si astrae studiando o componendo musica. Giocano insieme a biliardo, si allenano, si dedicano al sesso (tanto).

Poco fa stavo scrivendo del mio team di lavoro, e in modo più esteso del mio ufficio. Gente che lavora in nome di un comune obiettivo. Chiusi in un microcosmo che sembra l'astronave, noi parliamo di urbanistica, architettura ed edilizia attorno a tavoli di lavoro.
Con divertimento mi chiedo: cosa succederebbe se io leggessi la storia del mio ufficio attraverso pagine anonime di diari? Riuscirei a riconoscere l'autore del capitolo dalla lettura dei suoi pensieri sulla vicenda della più recente convenzione urbanistica? Quello che troverei in quelle pagine mi sorprenderebbe?
Quando un agglomerato umano lavora per uno scopo comune, tale scopo comune è l'unica parte veramente in comune tra le persone. Ognuna in realtà legge la situazione differentemente, e vive il rapporto con il resto del gruppo in modo diverso, proprio come succede a quegli astronauti. Le ambizioni, gli odi e le simpatie, le alleanze, le vendette trasversali. Gli abbracci e gli screzi. I segreti.

Dietro all'organigramma di ogni azienda si nasconde un microcosmo di imprevedibilità, è noto. Ma io, immaginando di leggerne il libro, mi pongo le seguenti domande: intuirei l'autore di ogni paragrafo? Oh, si. I contenuti mi sorprenderebbero? Al contrario, credo che li immaginerei in anticipo.

Credo di conoscere anche troppo bene il mio microcosmo edilizio. Non sono un osservatore, ma se mi si lascia abbastanza a lungo all'interno di un gruppo riesco a trarre conclusioni in ottima parte giuste, incrociando la logica e l'intuito, abbracciando l'ovvio, costruendo sul telaio delle apparenze, premiando le conclusioni più semplici, anche se strane. Non si possono sempre cogliere i dettagli ma gli schemi sono sempre evidenti. Come nella Psicostoria di Hari Seldon. Sono un buon deduttore.

Ma è giusto addentrarsi in questo tipo di analisi se si parla di un ufficio e di un team di lavoro? No, non lo è. Anche se il rapporto tra colleghi si presta all'analisi delle dinamiche di gruppo ed è divertentissimo arrivare a riconoscere gli entusiasmi e le paure nascosti da ognuno, non è cosa da fare. Quindi lasciamo stare, l'ufficio è lavoro e la professionalità consiste anche nel vedere delle persone ciò che va visto, senza guardare troppo oltre.

Alzi la mano chi pensa che questo post sia un delirio.

Nessun commento: